“Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è” così recitava il grande Nino Manfredi in un vecchio spot della Lavazza.
Eh già il caffè, gioia e dolore di una cultura tutta italiana almeno che non ci si ostini a chiamare caffè anche quello che si beve in altri paesi o peggio l’orzo.
Oggi parliamo di cialde, di capsule, di macchine per il caffè e di distributori automatici peggio di liofilizzato o altre schifezze varie. Ma un tempo il caffè, rito del bar a parte, era la moka se non addirittura la napoletana e l’acquisto non era banale, il caffè nelle botteghe era in grani e veniva macinato all’acquisto. Era importante la torrefazione di provenienza, la macinatura, l’imbustamento nelle piccole bustine che ricordo bianche, con l’interno oleoso, a motivi vari o con il logo della torrefazione, che il droghiere provvedeva a riempire e a chiudere piegandole attentamente con l’apertura risvoltata. Ma c’era anche chi il caffè lo comprava a grani e la macinatura veniva fatta a mano prima dell’utilizzo.
Certo c’era anche il caffè confezionato, di solito in barattoli di lamiera, che venivano poi riciclati per tanti usi in casa.
Ricordo Roma piena di torrefazioni, la più famosa, forse, Castroni, e lo sentivi nell’aria a centinaia di metri di distanza l’odore del caffè. Per me indimenticabile è la vecchia torrefazione di Ottoni a via Galeazzo Alessi a Torpignattara, proprio a fianco dove abitava mia zia, casa che frequentavo spesso.
Ma dopo averlo comprato il caffè andava fatto e li iniziava un secondo rito, per molti ancora più importante della stessa scelta del caffè.
La regina di questo momento era la moka, che era avvolta di suo in una serie di usanze. Innanzitutto la misura: da due, quattro, sei e più caffè. Non andava mai lavata con il detersivo, più era usata e più il caffè era buono. Questo comportava che alla moka andava cambiata la guarnizione di tenuta – e fatta bollire solo con acqua almeno due o tre volte prima del riutilizzo – ma anche il manico, la valvola di sicurezza e il pomellino del coperchio. Penso ci siano moka che potrebbero raccontare la storia intera di famiglie italiane.
Poi le leggende dei vari trucchi: il caffè che andava pressato o no; chi ci faceva tre buchi con uno stecchino dopo averlo pressato; chi utilizzava solo acqua già bollita.
La moka sul fuoco, fiamma alta, media, bassa… altra decisione legata a leggende. Il primo gorgogliare e il profumo che si spargeva per la cucina, per il corridoio, se era di mattina, in camera a svegliarti nel modo più piacevole.
In quel momento c’era da fare attenzione perché iniziava la difficoltà della fuoriuscita. Se non alzavi il coperchio, il caffè sbuffava dal foro, se lo alzavi la forza del vapore lo faceva schizzare ovunque. La soluzione per alcuni era mettere un cucchiaino di traverso sotto il coperchio, finché non arrivarono i “funghetti” a retina da mettere sui fori di uscita.
Fatto si può versare… immancabile il richiamo “Lo hai girato?” eh si perché andava girato nella stessa macchinetta a mischiare il primo uscito più condensato con l’ultimo più acquoso.
Eccolo finalmente servito, zucchero? E gli adulti che lo “correggevano” con quelle due gocce di Mistrà. Eh si perché il caffè si corregge con il mistrà o l’anisetta pura, la Sambuca è un sacrilegio.
Ricordi che si accavallano e ci parlano di famiglie numerose che con il caffè finivano il pasto e iniziavano il rito del dialogo, perché i giovani non ci credono ma a tavola si rimaneva anche per 30 o 40 minuti a parlare, magari ascoltando la Corrida alla radio, si rideva, o si “facevano i conti” se i genitori dovevano rimproverare qualcosa, ma erano momenti importanti di un calore ormai scomparso.
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